Ha cominciato come fotografo di scena sui set del direttore della fotografia Franz Pagot a Londra. Poi fotografo ‘jazz’. Ha pubblicato per Jazzlife, Swing Journal, Allaboutjazz, Strumenti Musicali, Jazz Convention, Capital, Ilsole24Ore Business Media, Mondadori, vogue.it, elle.it, interviewrussia.ru. Ora collabora con L’Officiel Italia. La Takeaway gallery di Roma gestisce i suoi progetti personali. Parlando di fotografia e progetti di vita con Andrea Buccella.
Come nasce la passione per la fotografia? Hai avuto esempi in famiglia, è stata una folgorazione?
«Uno dei ricordi più belli che ho da piccolo è l’immagine di mio padre sempre pronto con la macchina fotografica. Erano gli anni del boom della fotografia amatoriale in Italia, c’erano milioni di persone che scattavano immortalando vacanze, feste, ricorrenze. Così era anche nella mia famiglia».
Osservavi e allo stesso tempo provavi a fotografare?
«Il primo ricordo di me fotografo è legato ad una vacanza a “La Svizzera in miniatura”. C’erano delle macchinine dei pompieri che correvano su un binario, spruzzando acqua sui modellini degli edifici, per spegnere il fuoco: ho ancora viva l’emozione del momento, chiesi a mio padre la fotocamera per fotografarle. Nella mia memoria, è questo il primo impulso legato all’uso del mezzo fotografico per fermare una sensazione. Affascinante. Di fatto, il mio primo servizio fotografico: tutto è partito come un gioco, per poi diventare professione. E ogni volta che lavoro, oggi, cerco di far divertire quel bambino come allora».
E poi, che succede?
«A quindici anni compro, usata, la mia prima reflex, una Pentax. Fotografavo le stelle di notte, i paesaggi notturni d’estate. E i miei amici in spiaggia alle prime ore del giorno o al tramonto, il primo amore per la ‘luce a cavallo’. I primi esperimenti, i primi passi verso il bello. Tentativi di cogliere l’essenza della bellezza».
La fotografia come forma d’arte?
«La foto è un mezzo di comunicazione del quale ognuno si serve in base alle sue esigenze, al suo lavoro. Un immobiliare ne fa catalogo delle sue proposte, un antropologo ne fa documentazione, per intenderci. Io la uso per scoprire me stesso attraverso stimoli esterni. Anche come una traccia della mia vita: guardo una foto e so cosa facevo e dov’ero. Oggi leggo ciò che fotografo e mi trovo».
E come tutto ciò è diventano professione?
«Poco più che ventenne sono andato a Londra, volevo, come tanti, fare un’esperienza all’estero. Sono rimasto cinque anni. Avevo – come ancora oggi – una passione per l’arte, allo stesso tempo l’idea era lavorare nel campo pubblicitario, nel quale vedevo bene la passione per la fotografia. Mi laureo in comunicazione presso la London Metropolitan University e poi studio ‘Fashion Photography’ presso il ‘Central Saint Martins College of Arts and Design’. E ho cominciato a lavorare come fotografo pubblicitario, realizzando in principio cataloghi di cose diverse. Ok, lavoro, ma la cosa mi stava un po’ stretta. La fotografia non può ridursi ad un lavoro meccanico: bisogna fotografare quello che ti piace».
E qui arriva la musica, giusto?
«Sì, il jazz, il blues. Prima sentivo freddezza mentre lavoravo, quasi una cosa senz’anima. Ho cominciato a fotografare jazzisti e si è aperto un mondo. Come se saltasse un tappo insomma. Ho anche cominciato a studiare flauto traverso. Molto istruttivo farsi trascinare dalla musica».
La passione per il jazz condiziona anche la scelta di dedicarsi alla fotografia di moda, giusto?
«Sì, diciamo che devo molto ai jazzisti ai quali mi ispiro, da Thelonius Monk a Miles Davis. Colui che ha inventato il “cool jazz” – facendo emergere l’artista non solo nell’espressione musicale ma anche nel modo di proporsi al pubblico. Quello che oggi definiremmo “stiloso” insomma. Miles fece moda per molto tempo».
Quindi, c’era un bambino che fotografava macchinine dei pompieri, poi va a Londra e studia ‘Fashion Photography’, fa esperienza nel campo pubblicitario, poi comincia a sentire jazz e blues e oggi lavora come fotografo di moda. Quanto questo percorso era, diciamo così, già segnato?
«Ti aiuta se ti dico che a sedici anni avevo l’abbonamento a diverse rivista di moda italiane? O meglio, avevo pregato mia madre di farlo, ma le sfogliavo io. I tasselli ci sono sempre stati. Nel tempo si sono uniti e continuano a farlo. Sono felice io per la fortuna che ho di lavorare in un ramo che mi piace ed è felice quel bambino. Lavoro e mi diverto insomma, cosa non da poco».
Cos’ha la moda che ti prende così tanto?
«E’ un sogno continuo, è vivere nel bello. Essere raffinati nell’anima. Lavorare come fotografo di moda per me è anche un esercizio continuo di crescita personale, è portare bellezza e condividerla. E poi mi diverte tantissimo raccontare il mio punto di vista da dietro le quinte, il duro lavoro per la preparazione, la tensione della line up, il backstage, e poi lo show e i volti degli spettatori, il fascino dei luoghi che ospitano questi eventi. E’ emozionante».
Oltre al lavoro però ci sono i tuoi progetti personali, giusto?
«Sì, credo che si debbano avere idee progettuali ed essere mossi da curiosità proprie. Muoversi un po’ con spirito etnografico. Penso, ispirandomi a lui, a Irving Penn che mentre lavorava nel suo studio di New York sognava le tribù equatoriali e le loro culture sconosciute, che poi è andato a scoprire. A modo mio, appunto, con i progetti che ho, seguo delle ‘tribù’ che vivono nella nostra società. Ho un lavoro avviato nel 2012 sulla comunità mondiale di astrofisici; altri sui culturisti, sui jazzisti e ancora un altro sull’eleganza contemporanea. Realtà insomma che sono espressione della natura e dei comportamenti dell’essere umano».
Come un’investigazione?
«Sì, come ricerca continua».
(Nella foto: uno scatto di Andrea Buccella durante una sfilata al Palazzo Portinari Salviati di Firenze, gennaio 2014, stilista Barbara Casasola).