Dedicato agli Amazigh, uomini liberi del Marocco (e non solo)

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Cammini per gli spazi dell’esposizione e incontri il pescatore berbero Mohamed Ouaddon, uomo bellissimo ed elegante che starebbe bene in un film. Ma lui non recita, è così. O ancora Abdul Mujeeb che alimenta il forno di un hammam di Marrakech: senti il caldo, immagini la vita che scorre sopra di lui, quel vapore che ristora. Come senti il profumo del pane fra le mani di Sidi Said nel villaggio di Tisslite, Alto Atlante. Cammini ancora e ti immergi nel silenzio della regione vulcanica di Imtik. Qui c’è Mohamed Nogot alla ricerca di fossili.

Sono alcuni dei protagonisti dell’ultima mostra del fotografo freelance Luciano D’angelo: “Amazigh: berberi del Marocco”. Frutto di sette spedizioni fotografiche in tre anni tra l’Alto, il Medio, l’Anti Atlante e lo Jbel Sarhro “scoprendo le numerose etnie berbere della montagna e vivendo in totale sintonia con loro, godendo dell’ospitalità di umili ma accoglienti abitazioni, condividendo il cibo, rispettosi della cultura e delle abitudini di questa gente fiera” come scrive il giornalista Claudio Valente nelle note che accompagnano la visita.

Gente fiera, come lo sguardo che non dimentichi di Hussein Ayoob nel villaggio di Tisslite, Alto Atlante (nella foto). Lui è un Amazigh, un uomo libero del Marocco berbero “che vive fuori dei circuiti conosciuti, lontano dalle contaminazioni arabe e francesi” sempre nelle parole di Claudio Valente.

E poi c’è Omar Ahmed, pastore del villaggio di Ichbaken-Ait Ali N’Ita. Ha un sorriso sconcertante per la sua naturalezza, invita a sedersi con lui ai piedi dell’albero che lo ripara dal caldo, ad ascoltare storie. E’ parte delle radici sulle quali poggia. Ho avuto il privilegio, anni fa, durante un viaggio fuori dal comune, di assistere alla realizzazione di questo scatto. Un viaggio workshop fotografico in compagnia di Luciano D’Angelo ed altri preziosi amici, alla scoperta del Marocco “beldi” – quello autentico. Oggi ne comprendo il significato, insieme a quello del lavoro sincero di Luciano. Nostro Virgilio era Houcin Ahlafi: “guida esperta, di solida conoscenza del territorio” seguendo le parole di Claudio Valente, che aggiunge: uomo che “comprende di non avere di fronte un fotografo convenzionale, quanto piuttosto un viaggiatore curioso, sinceramente interessato alla sua terra”.

Eccoli gli Imazighen, “uomini liberi”. “Così i berberi definiscono se stessi, rifiutando il termine con cui altri popoli li conoscono fin da quando i romani li chiamavano “barbari”, in quanto di madre lingua diversa dal latino o dal greco” – scrive Vermondo Brugnatelli, docente di lingua e letteratura araba presso l’Università Bicocca di Milano. Che aggiunge: “L’aspirazione alla libertà è ancora oggi la caratteristica saliente di questo popolo. La si legge nei volti, ora pensosi e gravi, ora lieti e sorridenti, delle donne e degli uomini che popolano i villaggi sui monti inaccessibili dell’Atlante o tante altre località del Nordafrica, e che ancora conducono la vita semplice ma fiera e indipendente dei loro antenati”.

Un popolo insofferente verso le imposizioni esterne, dimostrato anche dall’attaccamento alla propria lingua “che – aggiunge Vermondo Brugnatelli – ha attraversato i millenni ed è giunta fino a noi, nonostante le moltitudini di popoli e gli idiomi che su queste terre si sono avvicendati nel corso dei secoli. Oggi i berberi “autentici”, quelli che ancora parlando la lingua tamazight, sono molti milioni ma si trovano soprattutto nelle campagne, sui monti e nei deserti, nei luoghi ove si sono rifugiati per non rendersi schiavi di altre culture”. E in onore alla loro lingua, la nota esplicativa della mostra è anche in berbero.

Così viene voglia di unirsi alla carovana nel villaggio di Agard, Ait Bouali, Alto Atlante. Di accovacciarsi poggiando la schiena sul muro ocra come la djellaba, la veste tradizionale. Di svegliarsi con le prime luci del giorno e prepararsi per andare al souk, accettare l’invito a bere un tè, lasciando che il tempo scorra, seguire Ali Bilal e Khalid Jaabir, pastori Ismouguen della regione di Igmin, Anti Atlante, con le loro vesti blu che sembrano tessute con i fili del cielo.

E ancora, c’è la donna che carda la lana, con tatuato, sulla fronte, il simbolo della libertà Amazigh. La giovane sposa, i bimbi nomadi, il macellaio Khalid Haamid nella sua minuscola bottega con la djellaba intonata alle decorazioni (o viceversa).

Armonia e forza, rughe di storia e fierezza, colori, luce, ombre lunghe. C’è questo nelle foto “beldi” di Luciano D’Angelo.

E così riprendi la via di casa, camminando a fianco dell’anziano che fa ritorno nel suo villaggio, accompagnato dalla musica a tema che arricchisce l’esposizione. Pensando al detto musicato dal cantante contemporaneo Idir – evidenziato da Vermondo Brugnatelli: “chi vuole mangiare pane bianco scenda al piano e pieghi il capo: chi vuole preservare la sua dignità salga sul monte e si accontenti delle ghiande”.

A Pescara, presso gli spazi dell’Aurum, in mostra fino al 13 luglio 2014 – dal lunedì al sabato 09:00-13:00/15:30-23:30; domenica 15:30-23:30. Con il patrocinio del Comune di Pescara, Ambasciata del Regno del Marocco, Ente nazionale del Turismo del Marocco, Royal Air Maroc. Prossime tappe, Roma e Milano (location da definire).

Qui il sito di Luciano D’Angelo.

 

Comments (2)

  1. FEDERICA

    Luglio 9, 2014 at 15:42

    Grazie infinite caro Alessandro,
    sono andata a vedere questa mostra e non aggiungo nulla più di quanto tu abbia detto, perchè racchiude tutto.
    Sono immagini pregne, vive, che chiamano e richiamano lì, a tornare a dialogare con loro e ad entrare in loro, tanto da doverci tornare nuovamente a far visita a quei volti, a quei luoghi, a quella terra.
    Una mostra che lascia odori, suoni ed emozioni, che invita al viaggio attraverso gli occhi e il cuore del fotografo Luciano D’Angelo.
    Contenta che tu abbia portato voce a tanta bellezza.
    Grazie

    • Alessandro

      Settembre 4, 2014 at 15:58

      Cara Federica, grazie a te per la lettura e le belle parole!
      Un caro saluto,
      Alessandro

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